MAAM _ L’ECOSISTEMA DELL’ARTE. ALLA SCOPERTA DEL Museo dell’Altro e dell’Altrove
di Alessia Marsigalia
“Gli artisti sono le forme di vita di questo spazio: quando ci arrivano devono trovare la loro nicchia ecologica. La scelta dei materiali dell’opera o la collocazione che l’artista le dà, condiziona la sopravvivenza del suo lavoro, come succede in natura. Qui non ci sono teche, ma una città che vive e che quindi alimenta e usa gli spazi, condividendoli con l’arte. Io sono un po’ il giardiniere di questo spazio vivo e vegeto: un curatore di servizio, che cerca di aiutare gli artisti a fare in modo che la loro opera possa sopravvivere bene”. A raccontarlo è Giorgio de Finis, nuovo Direttore del Macro e anima di questo giardino naturale di arte, il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, nato nel cuore di “Metropoliz_città meticcia”, nome che 200 persone, legate ai Blocchi Metropolitani, hanno dato a questo ex salumificio dismesso, quando lo hanno occupato nel 2009.
Il MAAM è arrivato poco dopo: ha cominciato a prendere forma alla ex Fiorucci di Via Prenestina 913, nel 2012. Padre putativo del museo è stato il cantiere cinematografico Space Metropoliz, un progetto cinematografico a cura di Giorgio de Finis e Fabrizio Boni che voleva raccontare la storia di questi meticci (Italiani, Tunisini, Peruviani, Ucraini, Africani e Rom) che un giorno hanno deciso di trovare, aprire e creare CASA in questo luogo dimenticato.
Fino a qui film e realtà sono molto simili, se non che, nel racconto, a un certo punto questo stesso gruppetto di persone, stanco “di essere sempre sotto assedio”, decide di “abbandonare le barricate e di sfuggire una volta per tutte alle spinte centrifughe della città che li pone ai margini della società civile, negandogli casa, lavoro, salute e diritti. Il loro progetto è semplice: costruire un razzo per andare a vivere sulla Luna”.
Nella realtà, invece, gli abitanti di Metropoliz sulla Luna non ci sono andati, ma una L.U.N.A., creata e incastonata dall’artista Massimo De Giovanni fra le travi del soffitto del cortile, se la sono portata in casa.
Il MAAM è un mondo fuori dai canoni del terrestre e il telescopio di Gian Maria Tosatti e un razzo pronto a partire ci sono, a memoria che, in qualche modo, pensare e andare oltre si può. Se l’Oltre però è ancora un sogno, l’Altro e l’Altrove sono essenze reali e, mentre Metropoliz continua la sua battaglia per il diritto alla casa e all’abitare, il MAAM, fiore nel cemento che questo luogo ha partorito, allarga la sue radici.
Dai primi street artist (tra cui Lucamaleonte e Hogre) che hanno contaminato questo spazio nell’allestimento del film, ai centinaia arrivati poi negli anni, oggi si parla di 300 artisti passati tra le mura del MAAM, e di oltre 500 opere create e lasciate al loro ruolo.
Già, un ruolo: perché ognuna di queste è un mattone della barricata d’arte che questo spazio ha eretto per proteggere a suo modo una città, anche se, come precisa de Finis, “gli artisti che arrivano qui non parlano solo di diritti per la casa o di protesta con le loro opere. Certo, venendo a MAAM sottoscrivono una petizione che appoggia la lotta di queste persone, ma poi raccontano ciò che vogliono con la loro arte, mettendosi in dialogo con il luogo che li ospita”.
Un dialogo acceso, a viso aperto, dove a mettere i cancelli per proteggere l’arte sono stati gli stessi abitanti, in una sorta di regola di autocoscienza e di “salvaguardia delle loro guardie”. I bambini giocano tra le opere e gli abitanti ne sono sempre più rispettosi: a violare i taciti accordi tra arte e vita forse solo i pasciuti gatti che contribuiscono a rendere MAAM un luogo multisensoriale, intriso di odori e di suoni rubati.
Vita che si mescola all’arte, al punto tale che anche un esperto, in questo “museo”, potrebbe domandarsi se quel divano in mezzo alla stanza è un’opera o se quelle travi servono per fare la legna o sono un’installazione. Qui non ci sono etichette ed è proprio la sfida più bella, perché chiunque può piacevolmente interpretare quel qualcosa come capolavoro o oggetto di uso quotidiano. Le opere trovano uno spazio proprio, si abbinano a contesti creati naturalmente, dove sono la vicinanza di linguaggi o anche il solo colore a fare da cornici.
Un gioco unico dove l’arte si mette a disposizione della vita, come la pala di Alessio Ancillai che è stata usata per scavare una fogna e poi pulita e rimessa dove era, e la vita a disposizione dell’arte: si ispirano, si completano, si proteggono.
E così tra un murales fatto con migliaia di BIC, file di maiali appesi, mari che si contaminano con spazi extraterresti, sculture di reti, di legno e di mattoni, pinocchi e motociclette d’autore, ogni stanza vive di un suo ecosistema, in armonica coerenza. Citare i 300 artisti che hanno creato questa “F – ART” Farm sarebbe impossibile, ma ognuno di loro è arrivato volontariamente, si è fatto contaminare dal contesto, e ha creato un suo ordine naturale, come in un prato dove margherite e querce vivono insieme, non si somigliano ma stanno bene.
Così a fianco di nomi come Pistoletto, Mimmo Pesce, Franco Losvizzero, Giovanni Albanese, Veronica Montanino, Mauro Cuppone, Danilo Bucchi, ci son nomi forse meno conosciuti che hanno contribuito allo stesso modo a restituire spazi al Metropoliz, stanze dove convivono opere apparentemente slegate, dove la parola d’ordine è: sciogli l’enigma e trova il tuo filo d’Arianna.
In una società che ha i contorni dell’ipertesto, il Maam sviscera la didattica più intelligente: quella che fa pensare, dove le bandiere del movimento per i diritti della casa sono in mezzo a quelle dell’artista, dove la frase “avvicinare l’arte alle persone” non è un luogo comune ma il luogo stesso, dove, come ha artisticamente messo bianco su rosso Mauro Cuppone, gli artisti a pranzo pagano doppio e quindi nessuno si dichiara artista, dove le opere fanno da sfondo alla ludoteca dove i bambini di Metropoliz fanno il doposcuola, dove l’ombrellone caduto per il vento davanti all’opera del Collettivo di Lampedusa, opera fatta con i relitti dei barconi sui quali arrivano i migranti, sembra uno schiaffo di realtà alla realtà.
E ancora una volta non si smette di pensare, di pensare che tutto qui è provvisorio: tutte le opere sono tesori che viaggiano su una nave pirata e, se la nave affonda, affonda anche tutto il contenuto. L’incertezza del dopo frena ma è anche il motore del fare.
Proprio come i fiori che nascono nel cemento, dove non c’è logica, solo sorpresa e bellezza alla vista, incastrati in una realtà complessa. Così complessa che forse quel viaggio sulla luna non sembra ora così impossibile.
MAAM – MUSEO DELL’ALTRO E DELL’ALTROVE
APERTO TUTTI I SABATI